Sono cinque anni e quattro mesi che siamo in questa dimensione.
E’ questo quello che penso mentre mi aggiro tra i negozi di Busto Arsizio adocchiando le vetrine una ad una con poco interesse: non c’è niente di veramente bello quest’anno. Neanche al Centro Commerciale. Le uniche cose anche solo vagamente interessanti le ho già tutte nelle buste che tengo in mano, forse sarà il caso di tornare.
Annuisco da solo alla mia immagine riflessa. Sono sempre bellissimo, il passaggio di dimensione mi ha quasi giovato direi; niente a che vedere con le occhiaie di mio fratello che secondo me si sta stancando un po’ troppo. Per questo il suo regalo di Natale quest’anno sarà un week-end in un centro benessere. Non che ce lo veda molto immerso fino al mento nelle acque termali, ma sicuramente io – che lo accompagno – starò benissimo.
Attraverso la strada e premo il pulsante sul portachiavi, l’auto si apre con un beep discreto e un lampeggiare brevissimo di luci. Apro la portiera posteriore per appoggiare le mie buste sul sedile ed è lì che lo sento.
I profughi hanno un odore particolare, una specie di retrogusto metallico appena accennato. Sono i residui dimensionali che ti restano addosso quando compi il salto, ci vogliono giorni per levarteli di dosso. Anche senza vederlo posso dire con una certa sicurezza che si tratta di un coglione: primo perchè si trova sottovento, e secondo perché è a meno di duecento metri da me. Il che fa di lui carne morta, se sono buono. Carne a pezzi se mi fa girare le palle. Mi aspetto la chiamata di Shelv da un momento all’altro, così mi appoggi con un braccio alla portiera ancora aperta e tiro fuori il cellulare che squilla un secondo dopo che l’ho stretto tra le dita.
“Non è la mia giurisdizione,” dico immediatamente. Mi guardo intorno. Il parcheggio esterno dietro le lenti scure degli occhiali da sole è quasi violaceo. L’odore metallico è sempre più forte ma non lo vedo ancora.
“Per questo sorvolerò sul fatto che sei fuori zona, Eirdar,” commenta l’elfo dall’altra parte della cornetta.
Sorrido. Appoggio anche l’altro braccio sulla portiera e mi ci schiaccio contro mentre continuo a perlustrare la zona. Quando passi da una dimensione all’altra sei disorientato e confuso, soprattutto se ti capita di farlo senza la supervisione di qualcuno più in alto di te che controlli le coordinate e le emissioni magiche. Soprattutto se lo fai di corsa, saltando da una parte all’altra come faresti per superare un burrone se fossi inseguito da una mandria di demoni: non sai se il tuo salto sarà abbastanza lungo o meno, lo fai e basta perché i demoni sembrano più pericolosi. Quando io e mio fratello siamo arrivati qui la prima volta tutto ci sembrava assurdo e ci muovevamo molto guardinghi, facendo attenzione ad imitare gli esseri umani. Così adesso, nel parcheggio, cerco qualcuno fuori posto, la nota stonata. “Un povero diavolo non è più nemmeno libero di andare a fare le compere di Natale?” Chiedo intanto a Shelv.
“Non al di fuori della tua zona.”
“Non sto facendo niente di male,” insisto.
“Non ancora.”
Shelv mi conosce bene. Conosce mio fratello, in realtà, quello che sa di me gli arriva dalle parole di Tears che, per quanto scontroso, non fa che parlare di me. Quando Nakiri Shelv dimostra di conoscere particolari sulla mia persona so che può averglieli detti soltanto Tears e mi sento lusingato all’idea di loro due seduti in un ufficio di design che parlano di me. Sono un meraviglioso argomento di discussione. “Che cos’è?”
Non è una domanda da poliziesco, vero? Di solito si chiede com’è fatta una persona, o che faccia abbia. Io, prima di tutto, ho bisogno di sapere di che razza stiamo parlando.
“Un drow.”
Impreco. Odio i drow perchè non hanno paura di niente, non si fermano mai e, a meno che tu non gli infligga ferite mortali, quelli continuano a correre; e questo significa che dovrò inseguirlo per tutta la città a trecento all’ora – o peggio ancora a piedi – per chissà quante ore. “Un faccia-nera dovrebbe essere ben visibile,” commento, guardando meglio ora che so cosa cercare. Di solito i drow non escono di giorno, ma sono le quattro del pomeriggio del ventidue dicembre. In Lombardia. Il sole non c’è.
“Le immagini del satellite sono poco chiare, ma dovrebbe avere un berretto scuro e una sciarpa che gli copre metà viso.”
A guardarsi intorno sono tutti vestiti così. “Un particolare che mi aiuta,” commento sarcastico. E poi espiro. “Seguirò l’odore.”
“Sin, vorrei che fosse una cosa pulita.”
“Io non sporco in giro.”
Ne segue un silenzio che sarebbe divertente se io non fossi alquanto punto sul vivo. “Le budella di quel demone sulla statua del sindaco la scorsa settimana non sono state colpa mia. Tears me lo ha lanciato sulla spada!”
“Non voglio casini. Abbiamo già cancellato la memoria a troppa gente, per colpa tua.”
Sbuffo, questo mi toglie tutto il divertimento.
Riattacco senza commentare oltre perché c’è qualcuno che ha catturato la mia attenzione. E’ molto alto per essere un essere umano, diciamo quanto Tears, ed è incredibilmente magro nonostante indossi un piumino. Il cappellino è nero e le ciocche che s’intravedono sono bianche-argentee anche a questa distanza. I drow sono come gli elfi – di una bellezza spaventosamente inumana e di una magrezza che in questo mondo rasenta l’anoressia grave – solo che sono carbonizzati. Neri come la pece, con i capelli bianco neve. Non ho idea di cosa sia venuto a fare in un Centro Commerciale, ma ci rimarrà per poco.
Chiudo la portiera e rimetto l’antifurto, quindi mi stringo nella mantella fingendo un freddo che non ho mai sentito da quando sono qui e mi avvio nella sua direzione. Appena dietro di lui l’odore è così forte da nausearmi. Non si rende conto di me, ovviamente: a volte mi chiedo che cosa spinge dei novellini a fare cose simili. Lo sanno che ci siamo noi qui, lo sanno che li faremo fuori.
M’infilo con lui in cinque negozi diversi, lo osservo mentre scruta gli esseri umani nel loro mondo e cerca di replicarne le azioni. Solleva gli oggetti li guarda, quando nessuno lo vede li annusa. La profumeria lo confonde, sente profumi di fiori che non vede. La cosa lo turba. In tutto questo, non si accorge di me e io la trovo una cosa quasi tenera.
Il Centro Commerciale è affollato di gente in preda alla frenesia degli acquisti natalizi; se voglio dar retta a Shelv, e voglio dargli retta perché altrimenti chi lo sente poi Tears stasera?, ho bisogno di uscire dalla folla. La katana da sola ocupa molto spazio una volta fuori dal fodero e quando la brandisco posso affettare qualunque cosa nel raggio di due metri dalla mia persona. Di usare la pistola non se ne parla neanche in questo casino. Esce di nuovo e s’infila dal parrucchiere. Una delle ragazze lo intercetta poco dopo la soglia e non fa una piega nel vedere la sua pelle nero pece, probabilmente pensa che venga dallo Zimbawe. Gli chiede se può aiutarlo e se aveva in mente un taglio particolare. Lui non osa parlare, indietreggia e lo vedo che scuote il capo. Mi chiedo se capisca e conosca la lingua umana o se non sappia neanche quello. Io conosco il drow, comunque, potrei fargli da interprete.
Quando esce indietreggiando dal negozio, io lo sto aspettando seduto sullo schienale della panchina che si trova proprio lì davanti. Quando si volta e mi guarda negli occhi lo capisce subito che cosa sono. Se in un mondo alieno trovi qualcuno come te, lo riconosci dallo sguardo.
“Ora ti giri molto lentamente e ti avvii verso l’uscita di sicurezza,” gli dico nella sua lingua, con un sorriso.
Lui rimane perplesso e sgrana gli occhi, ma non si muove.
“E’ il mio accento, vero?” Arriccio il naso. “Non mi è mai riuscito di perfezionarlo.”
Scosto la mantella e gli mostro la katana che porto al fianco, quindi gli faccio cenno di muoversi e questa volta lui lo fa. Lo seguo a ruota.
“Sai, il tuo errore è stato non nasconderti subito,” continuo mentre lui preme il maniglione antipanico. “E’ sempre questo il vostro errore. Arrivate qui e vi mettete a camminare fra la gente, senza pensare che vi noteremo subito. Il che, nel tuo caso, è una cosa piuttosto ingenua, non trovi? Sei alto due metri, hai i capelli argentati e le orecchie a punta. Un pò fuori standard per un essere umano.”
“Chi sei?” Mi chiede. Ha una voce molto bassa e profonda, direi quasi sexy. Io però non mi faccio i drow, è una questione di denti. Non mi fido.
“Oh questo mi ferisce, pensavo che io e mio fratello fossimo piuttosto conosciuti. E invece c’è ancora qualcuno che mi chiede il nome.” Sospiro in maniera molto teatrale. “Sin Eirdar.”
Lo sento trasalire. Non lo tocco nemmeno ma lo vedo, è una reazione di cui mi compiaccio sempre, anche dopo anni. “Quell’Eirdar?” Chiede.
“Ti ha detto proprio male, eh?” Commento. “E tu faccia-nera come ti chiami?”
“Drizzt.”
Siamo nel parcheggio sotterraneo e non c’è nessuno, così mi prendo tutto il tempo di girarlo per una spalla e di schiantarlo contro un muro. “Oh, andiamo!” Sono senza parole. Dico, è tanto chiedere a questa feccia dimensionale di non prendermi per il culo? “Drizzt?”
Lui mi guarda senza capire e mi rendo conto che di R. A. Salvatore lui non sa un bel niente.
“Okay… Drizzt,” mi viene da ridere. “Tu lo sai qual’è la procedura, non è vero? Fosse per me non staremmo neanche avendo questa discussione ma ai piani alti ci tengono ad essere formali, quindi beh… tu non potevi passare la barriera, io vengo pagato per fermarti. Quindi adesso ti farò fuori qui sul posto. Ultimo desiderio?”
Come al solito parlo troppo, Tears me lo dice di continuo. Mi guarda dal basso in alto e mi dice: Sembri una suocera, parli parli parli. Tu i Profughi li ammazzi di noia.
Il problema è che mi piace il suono della mia voce. Ad ogni modo Drizzt scatta in avanti e sotto quel piumino dell’anno scorso ha una specie di para-avambraccio con una lama incastrata sopra. Mi scanso giusto un secondo prima che mi apra in due la mantella, cosa che mi avrebbe fatto irritare non poco. Atterra qualche metro dietro di me, accovacciato in terra come un animale e io ho il tempo di estrarre la katana prima che mi sia addosso di nuovo. Mi correggo: ha due para-avambracci, non uno, e li muove discretamente bene, è feroce.
Di solito prima di gettarmi in un corpo a corpo così serrato, mi piace giocarci con i miei avversari, ma lui non me ne dà il tempo. Sferra un attacco dietro l’altro, ad una velocità assurda e sfrutta i piloni del parcheggio per darsi lo slancio e venirmi addosso. La sua agilità è impressionante e mi eccito all’istante all’idea di scontrarmi con uno così. Mi scanso dopo l’ultimo attacco e salto all’indietro atterrando sul cofano di un’auto, lui mi segue a ruota e non mi prende per poco – esageratamente, meravigliosamente poco. Una volta a terra blocco il suo ennesimo attacco con la katana in orizzontale e lo vedo che ringhia con i denti bianchissimi e luccicanti sotto le labbra nere. Esclama cose molto poco carine sul conto di mia madre, che per altro non conosco quindi, per quanto ne so, potrebbe pure avere ragione lui. Solo che è una questione di principio: non puoi offendere mia madre.
Sblocco la situazione di stallo con un semplice gioco di polso, prova a sfuggirmi ma non ci riesce, vedo le scintille partire dall’avambraccio sinistro e una lama è andata.
“Odio questa parte,” sospiro, mentre si lancia indietro e corre, cercando di crearsi uno spazio d’azione. “Però devo dirtelo lo stesso: se ti arrendi ora possono rispedirti indietro senza un graffio.”
“Col cazzo,” mi dice lui.
Alzo gli occhi al cielo. Non si arrendono mai, quindi mi chiedo per quale motivo siamo obbligati a dirglielo. E’ agile ma corre lento, gli elfi silvani sono più veloci, forse perchè hanno spazio per correre mentre i drow vivono nelle cave e c’è poca voglia di correre in mezzo al carbone. Gli sono addosso dopo poco e lo getto a terra, lui rotola sulla schiena e para un fendente della katana con l’unica lama che gli è rimasta. Sono seduto a cavalcioni su di lui, così può anche evitarsi di provare a farmi fuori le palle con una ginocchiata. Tears andrebbe ai pazzi se mi vedesse così, lo so. “In un’altra occasione questa potrebbe essere una posizione interessante,” dico con l’ennesimo sorriso. Impreca di nuovo e mi dice cose poco gentili. Vere, anche queste. Però nessuno – a parte Tears – ha il diritto di commentare chi mi scopo quando non sto ammazzando gente. Non posso sollevare la spada, perchè non ho abbastanza spazio così estraggo il coltello che porto negli stivali; prima che io possa puntarglielo alla gola, però, fa una cosa meravigliosa che io devo imparare a fare. Gli sto seduto sullo stomaco eppure questo non gli impedisce di sollevare una gamba e tirarmi una ginocchiata di prepotenza tra le scapole. Non lascio la presa sul coltello ma rimango senza fiato abbastanza perché lui possa ribaltarmi e fuggire. Tossisco e cerco l’aria che mi ha tolto, quindi lo vedo correre verso l’uscito. “Eh no, non ho nessuna intenzione di rincorrerti per tutta Busto.”
Mi sollevo da terra e mentre gli corro dietro recupero al volo la spada che mi è caduta di mano dopo il colpo alla schiena. Mi getto sul primo pilone a destra e poi su quello subito davanti, dalla parte opposta. Salto e atterro al contrario sul soffitto, continuando a corrergli dietro. Lui si volta, non mi vede e – come il coglione che è – si ferma confuso. A quel punto mi lascio andare a terra. L’idea è quella di aprirgli lo stomaco in due, ma faccio male i conti perchè lui, tipo, si piega e quello che finisce sotto la mia lama è direttamente il collo. E il collo è un macello, cazzo. Il fiotto di sangue mi prende in pieno in faccia, sulla mantella, su tutto ciò che indosso. Quando il corpo dello stronzo finalmente cade a terra, sono ricoperto di viscidume rossastro dalla testa ai piedi. “Cazzo,” sibilo. “Cazzo, cazzo, cazzo.”
Sono così schifato che rimango lì immobile per quasi due minuti. Ho i capelli appiccicati alla fronte da quella schifezza. Alla fine mi rendo conto che qui è un macello, quindi tiro fuori il telefono con due dita e li chiamo perchè vengano a ripulire. Poi faccio un’altra telefonata perché non ho intenzione di sporcare gli interni della mia macchina.
Tears arriva quasi un quarto d’ora dopo la squadra di ripulitura. Nakiri è venuto di persona e ha fatto recintare il parcheggio sotterraneo, il direttore del Centro Commerciale sa che c’è una fuga di gas. Io sono il primo operatore dell’ENEL ricoperto di sangue.
Uno degli uomini di Nakiri mi sta tatuando i miei punti sul braccio; la maglia abbiamo dovuto tagliarla.
Tears cammina sul lago di sangue come niente fosse, però si guarda intorno curioso. “Che diavolo hai combinato?” Mi chiede, avvicinandosi. Il tipo che mi sta tatuando lo saluta con un cenno della testa.
Io lo guardo torvo. “Secondo te?”
“Non lo so,” si stringe nelle spalle. “Hai dissanguato una mucca?”
“Drow,” correggo.
“Quanti?” Chiede lui, con l’occhio un po’ sgranato.
Sollevo un solo dito.
“Uno?” Bercia, come suo solito. “Sin, qua c’è sangue per dieci persone! Cosa diavolo gli hai fatto?”
“Niente!” Protesto. “Volevo aprirlo in due ma quello si è abbassato.” Mimo la scena e il tatuaore mi dice di stare fermo.
“La testa? Lo hai preso alla testa?” Sbraita mio fratello. Lo sapevo che questa sarebbe arrivata, arriva sempre. La ramanzina sulla testa. “Quante volte devo ripetertelo? E’ la prima regola. Se vuoi una cosa pulita, non mirare alla testa.”
“Non ho mirato alla testa,” ripeto. “Si è chinato lui.”
Tears bestemmia per altri dieci minuti e intanto lo vedo che mi controlla centimetro per centimetro per assicurarsi che un po’ di quel sangue non sia anche mio. Sorrido. “Con cosa sei venuto?” Chiedo.
“Ho chiesto un’auto in prestito ad Electra, immaginavo che non volessi sporcare la tua e non avevo intenzione di farti sporcare neanche la Leon.”
“Ero fuori a far compere di Natale, sai?” Lo informo, mentre il tatuatore finisce. Il tatuaggio è magico, ed è brillante appena fatto, poi la luminosità si attenua e si uniforma a quelli che ho già. Ricopro il braccio con i brandelli di camicia che ora è fredda e viscida e mi fa ancora più schifo di prima.
“Natale? Sin, noi non crediamo al Natale,” mi fa notare lui. “Gesù e Babbo.. coso, Natale lì, sono tutte cazzate.”
“Oh lo so, ma le vetrine sono luccicanti in questo periodo,” batto le mani.
“Sei una gazza ladra,” commenta lui e fa scattare l’antifurto di un catorcio di macchina così malridotta che non so nemmeno che marca sia. La guardo perplesso e sotto il mio sguardo cade il paraurti.
“Beh?” Commenta lui. “Non ti aspettavi mica che Electra ci prestasse una Limousine.”
“E’ un catorcio.”
“Lo sei anche tu, in questo momento.”
Lo guardo torvo e lui si mette a ridere.”Sali, forza.”
Mentre apro la portiera mi viene a mente che ho lasciato i regali e gli addobbi in macchina. “Mi riaccompagni qui, dopo? Le mie cose sono in macchina.”
Tears inizia ad imprecare mettendo in moto e finisce solo quando spegne l’auto di fronte all’enorme parete esterna scorrevole di casa nostra.
Immagino che questo non sia che l’inizio di una lunga serie di imprecazioni, soprattutto considerando che cosa gli ho regalato per Natale.